E se gli Spurs, squadra di pallacanestro in NBA, venissero a Taranto?
Ho immaginato gli Spurs, una delle trenta squadre di pallacanestro che militano nella NBA, a Taranto. E se non fosse solo un sogno?
Sono incazzato e sono stanco. Sono incazzato perché a Taranto la parola domani non significa più futuro, significa il continuo rimandare ciò che è stato promesso, ma non verrà mantenuto mentre l’unica cosa che viene mantenuta è la presa per il culo. Basta!
Mi sono stancato delle storie che ci raccontano e che ci raccontiamo, perciò ve la racconto io una storia. Una storia vera, col lieto fine, anche perché le storie che finiscono bene sono le mie preferite (ma dai?).
E ve la racconto io perché difficilmente qualcun altro lo farà.
Tutto parte da questo video, il racconto del titolo NBA 2014 dei San Antonio Spurs. Quando, guardandolo per l’ennesima volta, mi sono reso conto che San Antonio e Taranto hanno tante somiglianze ho creduto che valesse la pena farvelo conoscere.
Cosa hanno in comune San Antonio negli USA e Taranto?
Qualcuno potrebbe dire “ma a wekkie stè parl?” Cos’hanno in comune la seconda città del secondo stato più ricco degli USA e il capoluogo di provincia di una regione perennemente in rosso? Hanno un forte legame con le forze armate (a San Antonio ci sono 6 basi militari, davvero devo parlare di Taranto e della Marina Militare?), sono state teatro di pesanti sconfitte: la battaglia di Alamo (1836) e la Notte di Taranto (1940); ma soprattutto ad accomunarle ci sono i successi e i record delle loro squadre di basket, entrambe protagoniste di cicli vincenti.
Da una parte il Cras Taranto basket che in 10 anni ha vinto 4 scudetti, 3 Supercoppe italiane e 2 Coppe Italia ed è stata la prima squadra femminile a vincere scudetto, Coppa Italia e Supercoppa italiana nella stessa stagione (2002/2003). Dall’altra i San Antonio Spurs che in 16 anni hanno vinto 5 titoli NBA e sono una fabbrica di record da quando giocano insieme i Big 3 (Tim Duncan, Manu Ginobili e Tony Parker); tra i tanti spicca l’essere la squadra con la più alta percentuale di vittorie della storia in regular season.
Due squadre nate come small market, ma che sono state in grado di vincere e di ripetersi; con coach plurivincitori “multitasking”: Ricchini, simultaneamente allenatore del Cras e della nazionale italiana femminile, e Popovich che dopo le Olimpiadi di Rio allenerà anche la nazionale maschile statunitense. Infine due beniamini dei tifosi si assomigliano tantissimo: la statunitense Michelle Greco e l’argentino Manu Ginobili. Entrambi hanno avi italiani, hanno le stesse iniziali, lo stesso numero (il 20), giocano nello stesso ruolo (guardia) e sono due giocatori clutch, cioè che si esaltano quando la partita diventa più difficile e il pallone diventa più pesante, insomma i duri che cominciano a giocare quando il gioco si fa duro.
Finite le premesse, torniamo al video iniziale in cui il titolo dice molto: Reborn from the ashes, rinascere dalle ceneri. Comincia con la sconfitta in gara 7 delle Finals del 2013 che costa il titolo agli Spurs. Dopo la partita i giocatori stringono un patto: si impegneranno al massimo per tornare l’anno dopo alle Finals e dare a Duncan e Ginobili quella che potrebbe essere l’ultima chance di vincere un altro titolo. Detto fatto: si qualificano ai playoff ottenendo il primo posto in campionato e arrivano in finale trovando gli stessi avversari che l’anno prima li hanno sconfitti 4-3 al termine di una serie combattutissima di partite: i Miami Heat di LeBron James, il giocatore più forte del pianeta.
Una storia di determinazione e riscatto
Stavolta gli Heat vengono spazzati via con un perentorio 4-1. Di quella squadra fa parte anche Marco Belinelli, nuovo acquisto del team, che ha rinunciato a offerte più ricche pur di giocare negli Spurs ed è così diventato il primo italiano a vincere un titolo NBA. Il suo esempio racconta una storia di determinazione e riscatto: gli dicevano che l’NBA non era posto per lui, che non avrebbe avuto futuro (ho un altro deja-vu di Taranto), ma lui non si è mai arreso anche quando non giocava, ha lavorato duramente e i suoi sforzi sono stati premiati.
La determinazione è la chiave. Determinazione che è stata la costante della vita di Tim Duncan, la pietra angolare su cui i San Antonio Spurs hanno costruito tutti i loro successi e i loro record; chissà che la sua storia non possa ispirare qualcuno anche da noi. Considerato il giocatore più forte di tutti i tempi nel ruolo di ala grande, da giovanissimo in realtà era una promessa del nuoto, un futuro atleta olimpico come lo era stata la sorella a Seul.
Ma gli eventi prendono una piega diversa. Nel settembre dell’89 un uragano devasta l’isola caraibica di Saint Croix dove vive, distruggendo tra le altre cose l’unica piscina olimpionica. Pochi mesi prima sua madre si ammala di cancro, tragedia dalla quale nessuna famiglia è rimasta immune a Taranto, e muore l’anno dopo, il giorno prima del compleanno di Tim. A soli 14 anni la sua vita sembra distrutta e i suoi sogni infranti, infatti dopo la morte della madre abbandona il nuoto agonistico, ma grazie all’altra sorella e a suo marito scopre il basket. A sedici anni annulla in un’amichevole il ventiduenne fenomeno dell’NCAA Alonzo Mourning, poi introdotto nella Hall of Fame del basket e attira così l’attenzione dei migliori college statunitensi.
Sceglie Wake Forest e si iscrive a Psicologia. Già a 18 anni può entrare in NBA, ma si dichiara eleggibile per il draft solo dopo aver terminato gli studi, tenendo fede alla parola data alla madre che prima di morire gli ha fatto promettere di laurearsi. Questo è Tim Duncan. Alle parole (poche) ha sempre preferito i fatti (tanti), facendo parlare il campo; la sua determinazione è feroce, la sua forza mentale spaventosa; si mette sempre a totale disposizione dei compagni di squadra per i quali è un esempio formidabile: ha un’etica del lavoro encomiabile, altrimenti a quaranta anni (il 25 aprile) non sei ancora uno dei giocatori più forti e determinanti del campionato migliore del mondo.
E Taranto che c’entra?
Il punto è questo, non bisogna arrendersi di fronte alle difficoltà per quanto grandi possano apparire, se la motivazione è forte e ci si impegna fino in fondo si possono superare. Se si va tutti nella stessa direzione, mettendo da parte i propri interessi egoistici e si lavora come una squadra, “domani” può tornare a significare “futuro”.
Una sconfitta non rappresenta la fine, ci si può rialzare e diventare più forti di prima. Troppi tarantini vivono all’insegna del “ce me ne futt a me?”, ma io ne conosco tanti che sono brave persone, persone educate. Ma troppo spesso qualcuno a caso che si crede furbo confonde la buona educazione e lo stare in silenzio col potersene approfittare, pensando che “ce me ne futt a me?” sia un vestito che indossano tutti i tarantini.
No. Non è così. C’è una parte buona di Taranto ed è proprio a quella che mi rivolgo. Non è necessario urlare per far sentire la propria voce, però bisogna impegnarsi per quello che si vuole, affrontare di petto le situazioni e non sperare che se qualcosa non va tutto si risolverà magicamente evitando di affrontare i problemi.
Sono francamente stufo di tutte quelle persone che non valgono niente nella mia città e che decidono per la mia città arrivando a toglierci la storia per negarci il domani; mi piacerebbe portare gli Spurs a Taranto, anche solo per vedere degli uomini che tengono fede alla parola data, al contrario di chi ci governa.
Photo credits: ringraziamo per l’immagine di copertina Serenella Veneziano.
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