Storie e tradizioni: come celebrava Taranto il Giorno dei Morti?
Il Giorno dei Morti è parecchio sentito a Taranto. Una tradizione atavica e condivisa da molti, moltissimi tarantini.
Sono stata al cimitero qualche giorno fa, un luogo con il quale – e so di dire una ovvietà – non ho mai avuto un rapporto sereno. C’è da dire anche che ci sono cimiteri che paiono dei musei presi d’assalto da centinaia di turisti e cimiteri che, invece, potrebbero solo essere il luogo ideale per una pellicola horror.
E’ il caso (mi duole dirlo) di San Brunone a Taranto dove, oltre le strutture e le impalcature, traballano le anime dei morti inghiottiti e uccisi due volte dalla polvere rossa che aggredisce tombe, cappelle, fotografie e vasi.
Tuttavia, al di là delle mie impressioni, il Giorno dei Morti è parecchio sentito a Taranto, come vuole la tradizione.
Sfogliando un libro, ho letto che un tempo prima ancora che arrivasse la giornata dedicata ai defunti, i parenti si occupavano della pulizia delle tombe, relativamente poche quelle monumentali (D’Ayala, Raffo con il caratteristico monumento di un fratello che tenta di salvare l’altro), molte invece quelle antiche scavate a pozzo con una lastra quadrata per chiusura.
Moltissime, infine, le tombe in muratura addossate quasi tutte al muro di cinta verso l’entrata principale, all’epoca unica via di accesso al cimitero. Per queste pulizie annuali, chi poteva chiamava pure un muratore per una passata di calce sia all’interno che all’esterno. Altri, poi, evitavano di farlo e ornavano con drappi e panni neri l’ingresso della sepoltura.
Il 2 novembre qualsiasi attività commerciale e scolastica era sospesa. Non c’erano mezzi di trasporto e la città pareva rinchiusa in un’intima tristezza. Sin dal mattino, dalla città cominciava il primo mesto pellegrinaggio e gli abitanti della città vecchia si muovevano quasi tutti a piedi per onorare i Morti, portando con sé sedie, sgabelli, bottiglie d’acqua, pane e olio malgrado qualcuno usava digiunare.
Nelle sepolture si accendevano le luci di suffragio, si recitavano le preghiere e si ricordavano i defunti. In tutti i modi. Gerani e garofani venivano piantati sul cumulo di terra che copriva la fossa, oppure fiorivano durante la bella stagione. Per qualche tomba più pretenziosa c’erano portafiori ricavati dai bossoli d’ottone dei proiettili della guerra del 1915-18 e che facevano bella mostra nelle case del 1920.
All’epoca non c’era abbondanza di fiori, piuttosto ad abbondare erano le lampade ad olio. Ce n’erano di tutti i tipi, ricavate dai bicchieri comuni, ad esempio. Pure il modo di esprimere il dolore differiva. C’erano le “prefiche” che, nell’età romana indicavano donne prezzolate per celebrare con canti e lamenti a differenza delle nostre che mostravano un dolore sincero e straziante.
La giornata trascorreva lenta, costellata da pianti, preghiere e discorsi per elogiare i defunti e ricordarne le origini. Al calare del sole si cominciava a smontare sedie, cavalletti, ingrandimenti e i drappi rientravano a casa. Come le persone, avvolte in un silenzio surreale. Le donne e i bambini tornavano prima per preparare un piatto di minestra, più modesto del solito per sottolineare la moderazione dovuta a un giorno di dolore.
Nel cimitero, lungo la strada e sul mare rosseggiante di fiammelle viaggiavano i soliti propositi di diventare un poco migliori. Un giorno.
Photo credits: silvio60 (img di copertina) – www.wateronline.info (img San Brunone)
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